Com’è noto, la millenaria storia dello sci inizia con un disegno. Quello inciso, oltre 6.500 anni fa, sulla pietra rinvenuta a Rodoy, comune norvegese della contea di Nordland, dalle parti, potremmo azzardare, della mitica Thule, raffigurante un uomo con ai piedi due lunghissimi sci mentre scivola veloce tenendo in mano un robusto bastone. La storia dello sci inizia, non a caso, con un segno artistico. 

Perché lo sci fu, senza alcun dubbio, la più grande scoperta compiuta dalle arcaiche popolazioni del nord, autentico e assoluto prodigio della genialità umana che un altro tipo di genialità, quella artistica, ha da subito fissato sulla pietra per farne memoria e conoscenza, per celebrarne il prodigio e il suo portato salvifico.

L’iscrizione rupestre di Rodoy ci testimonia, con la potenza illuminante dell’arte, che lo sci è stato la prima tecnica di locomozione terrestre, in anticipo sull’invenzione della ruota di 1.500 anni. E come l’invenzione della ruota è stata per la nostra civiltà un fattore determinante di crescita e prosperità, così fu lo sci per le popolazioni artiche. Che grazie al suo utilizzo conobbero una nuova libertà, vincendo l’isolamento che la neve imponeva loro. Lo sci permetteva di muoversi veloci e di coprire distanze che sembravano infinite. In questo modo si ebbero nuove opportunità di conoscenza. I villaggi più remoti divennero raggiungibili. Si scoprirono nuove terre e in esse nuove genti; si acquisì il loro sapere, offrendo il proprio. Nel segno dello sci si formarono nuove comunità. Lo sci, poi, fu decisivo anche per il miglioramento delle condizioni di vita. Esso, infatti, rese possibile la caccia anche in inverno, che addirittura si rilevò più agevole e più proficua che nelle altre stagioni, dato che l’animale braccato lasciava sulla neve evidenti tracce, muovendosi meno abilmente e veloce rispetto al cacciatore-sciatore. La caccia invernale procurò dunque una nuova prosperità con carne fresca e in abbondanza anche nella stagione più difficile.

Quindi lo sci fu libertà e cultura, prosperità e salute. In una parola, fu “salvezza” per gli antichi uomini del nord. Salvezza dall’angoscia dell’isolamento, dagli errori dell’ignoranza, dalla sofferenza della fame, dal dolore delle malattie e della morte. Lo sci, pertanto, è stato una delle prime vittorie dell’uomo sui pericoli della vita, vittoria che l’artista di Rodoy ha celebrato sulla pietra, facendone, propriamente, una sacra icona. La parola “sacro” significa “separato”. Lo sci, appunto, ha saputo separare, cioè allontanare, l’uomo dalla morte. Per tutto ciò esso è ascrivibile tra le grandi conquiste del genere umano.

Per sei mila e più anni lo sci è stato questo e, nella sua dimensione più autentica, continua esserlo nella libertà delle lunghe sciate domenicali nella magia della montagna invernale; nella conoscenza di territori accessibili solo con gli sci ai piedi; nel salutare esercizio della pratica sportiva nell’aria pura delle vette; nello sci agonistico, sfida di tecnica e di coraggio per la conquista del trofeo sportivo che ieri era venatorio; nello sci dei maestri, quale eterna ricerca della curva perfetta, temporanea ma salvifica vittoria sull’innata imperfezione umana. 

Tornare nel segno di Rodoy è capire l’autentico dello sci, celebrarne il prodigio e rinnovarne i valori, dei quali i Maestri di sci del Veneto sono custodi.

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